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FA FIRMARE DIMISSIONI IN BIANCO E MINACCIA IL LICENZIAMENTO, DATORE DI LAVORO CONDANNATO PER ESTORSIONE

10 Maggio 2016Autore: admin

datore lavoroIl datore di lavoro, che anteriormente alla conclusione del contratto impone o induce il lavoratore ad accettare condizioni contrarie a legge ponendolo nell’alternativa di accettare quanto richiesto ovvero di subire il male minacciato, commette estorsione: è quanto stabilisce la II Sez. Penale della Corte di Cassazione con la sentenza n. 18727/2016.

L’opportunità di tale pronuncia deriva dal caso giudiziario di un datore di lavoro siciliano, che proponendo ricorso in Cassazione avverso una sentenza di condanna per il reato di cui all’art.629 c.p., chiedeva l’annullamento della condanna a suo carico. Nello specifico l’imprenditore lamentava l’“omessa motivazione in ordine alla differenziazione tra approfittamento dello stato di bisogno ed estorsione”.

Le sentenze di primo e di secondo grado avevano stabilito che i comportamenti dell’imputato, consistenti nell’aver imposto dietro minaccia che i lavoratori firmassero lettere di dimissioni in bianco, accettassero una paga reale inferiore rispetto a quella risultante da busta paga e svolgessero un orario lavorativo a tempo pieno stante il part time risultante da contratto,costituivano il delitto di estorsione.

I giudici di legittimità hanno ritenuto di non accogliere il ricorso dell’imprenditore, il quale non negando i propri comportamenti adduceva la liceità penale non sussistendo alcuna minaccia ne esplicita ne larvata. Per la Corte anche l’utilizzazione di mezzi astrattamente leciti può pervenire ad un risultato ricattatorio se lo scopo dei medesimi è coartare l’altrui volontà. Come la stessa afferma “ciò che rileva, al di là delle forme esteriori della condotta, è, infatti, il proposito voluto dal soggetto agente, inteso a perseguire un ingiusto profitto con altrui danno, nonchè l’idoneità del mezzo adoperato alla coartazione della capacità di autodeterminazione del soggetto agente”. Affermazioni che trovano una solida base nella costruzione giuridica dello stesso art.629 c.p. stante la duplicità di beni giuridici, patrimonio e autodeterminazione del soggetto, da esso tutelati.

 

Officina Lex – Studio legale Bartoletti Ascenzi

Federico Melis

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FUMU Giacomo – Presidente –

Dott. VERGA Giovanna – Consigliere –

Dott. PELLEGRINO Andrea – est. Consigliere –

Dott. AIELLI Lucia – Consigliere –

Dott. D’ARRIGO Cosimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

C.A.J., n. a (OMISSIS) il (OMISSIS), rappresentato e assistito dall’avv. FARANDA Furio, d’ufficio;

avverso la sentenza della Corte d’appello di Palermo, Sezione Quarta Penale, n. 1429/2013, in data 02.10.2014;

visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;

preso atto della ritualità delle notifiche e degli avvisi;

sentita la relazione della causa fatta dal Consigliere Dott. PELLEGRINO Andrea;

udita la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale Dott. ANIELLO Roberto che ha concluso chiedendo l’annullamento senza rinvio limitatamente al capo G perchè il fatto non è più previsto dalla legge come reato, il rigetto nel resto del ricorso e la rideterminazione della pena detentiva in complessivi anni due, mesi sei e giorni dieci di reclusione.

Svolgimento del processo

Con sentenza in data 09.11.2012, il giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Trapani, all’esito di giudizio abbreviato, dichiarava C.A.J. colpevole dei reati di estorsione continuata in danno di Ca.De. (capo A), P.F. (capo C) e Cu.Gi. (capo E) perchè, nella qualità di titolare della società Dulcelado s.a.s., avente in gestione un bar in (OMISSIS), agendo nella sua qualità di datore di lavoro e con abuso di tale qualità, mediante minaccia di licenziamento, costringeva i detti dipendenti, prima, ad accettare le condizioni lavorative loro imposte e a firmare una lettera di dimissioni in bianco, poi, a svolgere di fatto attività lavorativa quotidiana e a tempo pieno, pur risultando gli stessi assunti con un contratto a tempo parziale, e a non fruire di ferie, contributi e TFR, costringendoli altresì ad accettare un compenso inferiore a quello che avrebbe dovuto essere loro erogato, fatti accaduti fino a giugno 2009. Al C. si addebitavano anche i reati di violenza privata ai danni dei predetti dipendenti (capi B, D ed F) perchè, mediante l’ulteriore minaccia di licenziamento, li costringeva a dichiarare falsamente dinanzi agli ufficiali dell’Ispettorato del lavoro di Trapani, di svolgere attività lavorativa a tempo parziale, il 28.08.2008. Infine, si affermava la responsabilità dell’imputato per l’omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali operate sulle retribuzioni corrisposte ai lavoratori nei mesi di gennaio, febbraio, marzo, aprile, maggio e giugno 2009 (capo G).

Unificati i reati sotto il vincolo della continuazione ed applicate le circostanze attenuanti generiche e la diminuente per il rito, il giudice per l’udienza preliminare condannava il C. alla pena di anni due, mesi otto di reclusione ed Euro 320,00 di multa nonchè al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile Ca.De. da liquidarsi dinanzi al competente giudice civile nonchè al pagamento di una provvisionale nella misura di Euro 2.000,00.

Avverso detta pronuncia, nell’interesse di C.A. J., veniva proposta impugnazione; con sentenza in data 02.10.2014, la Corte d’appello di Palermo, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, assolveva il sunnominato dal reato di cui al capo F per insussistenza del fatto, riducendo la pena inflitta nella misura di anni due, mesi sette, giorni dieci di reclusione ed Euro 260,00 di multa, con conferma nel resto della sentenza di primo grado.

Nei confronti della sentenza di secondo grado, il C. propone ricorso per cassazione per i seguenti motivi:

– violazione di legge in relazione all’art. 40 cpv. c.p. e alla L. n. 67 del 2014, art. 2, comma 2, lett. c) (primo motivo);

– vizio di motivazione in relazione ai verbali di sommarie informazioni rese dalle persone offese; omessa motivazione in ordine alla differenziazione tra approfittamento dello stato di bisogno ed estorsione (secondo motivo).

3.1. In relazione al primo motivo, osserva il ricorrente come la Corte territoriale, nel ritenere l’imputato responsabile del reato di cui al capo G) non ha tenuto conto di due disposizioni normative.

La prima, relativa alla decorrenza del termine di adempimento in materia di reati omissivi: nella fattispecie, solo la diffida INPS era completa in ogni sua parte e, solo dalla relativa notifica, l’imputato è stato messo nella condizione di adempiere al precetto, con la conseguenza che da detta notifica andava calcolato il termine di tre mesi.

La seconda, relativa alla omessa osservanza delle prescrizioni contenute nella legge delega al governo in cui, per i reati di omesso versamento delle ritenute previdenziali, è prevista la depenalizzazione per importi al di sotto dei diecimila Euro.

3.2. In relazione al secondo motivo, si rileva come fosse stato dedotto con l’atto di appello l’insussistenza del reato di estorsione, in quanto, ancor prima dell’instaurazione del rapporto di lavoro, tutti i dipendenti erano stati resi edotti delle condizioni, degli orari, delle retribuzioni e dei turni di lavoro, che i lavoratori avevano liberamente accettato. Sul punto, la sentenza di secondo grado appare carente di motivazione non avendo spiegato le ragioni per le quali debba qualificarsi come estorsione la condotta del datore di lavoro che, sin da prima dell’instaurazione del rapporto, prospetti al lavoratore, sicuramente bisognoso, la propria offerta, seppur esosa o iniqua di lavoro.

Motivi della decisione

Il ricorso risulta fondato limitatamente al primo motivo di doglianza avuto riguardo alla richiesta di pronuncia di annullamento della sentenza impugnata limitatamente al reato di cui al capo G) perchè il fatto non è più previsto dalla legge come reato:

circostanza che impone la conseguente eliminazione della relativa pena inflitta a tale titolo, pari a giorni venti di reclusione; nel resto il ricorso va rigettato a ragione della sua infondatezza.

Osserva preliminarmente il Collegio che la peculiarità del giudizio di legittimità consiste nel fatto che, che oggetto di esso, è una proposizione metalinguistica, ossia “il contrasto” tra una sentenza (o un’ordinanza) ed una disposizione di legge e, nel valutare il dedotto contrasto tra il provvedimento impugnato e l’art. 606 c.p.p. , lett. e), la Suprema Corte deve solo verificare che la decisione del giudice del merito sia stata congruamente e logicamente giustificata sia nel sillogismo deduttivo che abbia condotto all’applicazione di una determinata norma a un fatto accertato sia nelle argomentazioni sostanziali che sorreggono la ricostruzione del fatto medesimo (cfr., Sez. 5, sent. n. 27335 del 13/06/2007, dep. 12/07/2007, D’Auria ed altri, Rv. 237442; Sez. 5, sent. n. 22340 del 08/04/2008, dep. 04/06/2008, Bruno, Rv. 240491; Sez. 2, sent. n. 13927 del 04/03/2015, dep. 02/04/2015, Amaddio e altri).

Invero, per risalente giurisprudenza, eccede dalla competenza della Suprema Corte ogni potere di revisione degli elementi materiali e fattuali, trattandosi di accertamenti rientranti nel compito esclusivo del giudice di merito.

Il controllo sulla motivazione della Suprema Corte è, dunque, circoscritto, ai sensi dell’art. 606 c.p.p. , comma 1, lett. e), alla verifica di tre requisiti, la cui esistenza rende la decisione intoccabile in sede di legittimità:

a) l’esposizione delle ragioni giuridicamente apprezzabili che l’hanno determinata;

b) l’assenza di manifesta illogicità dell’esposizione, ossia la coerenza delle argomentazioni rispetto al fine che le hanno determinate; c) il mancato affioramento di alcuni dei predetti vizi dall’atto impugnato (cfr., Sez. 6, sent. n. 5334 del 22/04/1992, dep. 26/05/1993, Verdelli ed altro, Rv. 194203).

Fondato è il primo motivo di ricorso nei limiti che si andranno ad esporre.

3.1. Evidenzia il ricorrente come nell’atto di appello aveva lamentato che l’atto di accertamento dell’Ispettorato del Lavoro non contenesse, a parte l’indicazione dell’importo, le modalità di pagamento e l’individuazione dell’ente a cui tale pagamento andava fatto. Informazioni contenute in dettaglio nella successiva diffida INPS: di tal che, solo con la notifica di detta diffida, lo stesso era stato posto in condizioni di adempiere al precetto, con conseguente decorrenza da tale momento del termine di tre mesi per l’adempimento.

A detta del ricorrente, la Corte territoriale, nel riportarsi al principio giurisprudenziale secondo cui “in tema di omesso versamento di ritenute previdenziali e assistenziali, la contestazione del fatto accertato dai militari della Guardia di Finanza in contraddittorio con le parti e contenuta nel verbale di constatazione, che indichi con precisione l’importo dei contributi non versati, è idonea a far decorrere il termine di tre mesi concesso al datore di lavoro per provvedere al versamento dovuto ( L. 11 novembre 1983, n. 638 , ex art. 2, comma 1 bis, novellato dal D.Lgs. 24 marzo 1994, n. 211 ), in quanto, trattandosi di fattispecie penale, non si richiede che la contestazione provenga necessariamente dall’INPS come per le violazioni amministrative, ma piuttosto da tutti gli organi di polizia giudiziaria, ex art. 55 c.p.p. ” (Sez. 3, sent. n. 8564 del 14/01/2003, dep. 21/02/2013, Canuti e altri, Rv. 223468) aveva completamente errato, scambiando i profili di legittimazione alla contestazione della violazione con quelli dei criteri d’imputazione dettati in materia di reati omissivi.

3.2. Il rilievo difensivo non è condivisibile.

Invero, il reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali ( D.L. 12 settembre 1983, n. 463, art. 2, conv. in L. 11 novembre 1983, n. 638 ), in quanto reato omissivo istantaneo, si consuma nel momento in cui scade il termine utile concesso al datore di lavoro per il versamento, termine attualmente fissato, dal D.Lgs. n. 422 del 1998, art. 2, comma 1, lett. b), al giorno sedici del mese successivo a quello cui si riferiscono i contributi (Sez. 3, sent. n. 20251 del 16/04/2009, dep. 14/05/2009, Casciaro, Rv. 243628). Nella motivazione, la Suprema Corte riconosce che, secondo il costante indirizzo interpretativo della giurisprudenza di legittimità, la fattispecie criminosa di cui al D.L. n. 463 del 1993, art. 2, convertito nella L. n. 638 del 1993, ha natura di reato omissivo istantaneo, che si consuma nel momento in cui scade il termine utile concesso al datore di lavoro per il versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali dovute, a nulla rilevando il momento in cui il reato è stato accertato (cfr., ex multis, Sez. 3, sent. n. 29275 del 25/06/2003, dep. 11/07/2003, Braiuca, Rv. 226161; conf., Sez. 1, sent. n. 6850 del 04/12/1997, dep. 28/01/1998, conf. comp. in proc. Langeli e altri, Rv. 209538). Tale termine, inizialmente fissato dal D.M. 24 febbraio 1984 al giorno 20 del mese successivo a quello al quale si riferiscono i contributi, è stato anticipato al giorno 15 di ogni mese dal D.Lgs. n. 241 del 1997, art. 18 ed in seguito differito al giorno 16 dal D.Lgs. n. 422 del 1998, art. 2, comma 1, lett. b), con decorrenza dal primo gennaio 1999. E’ a tale termine che deve, dunque, farsi riferimento, a nulla rilevando, nell’ottica della identificazione del momento consumativo del reato, la data della notifica della intimazione al pagamento nei tre mesi successivi alla contestazione, che rileva al solo fine dell’eventuale sussistenza della causa di non punibilità di cui al cit. art. 2, comma 1 bis (nello stesso senso, Sez. 3, sent. n. 43607 del 15/09/2015, dep. 29/10/2015, Piro, Rv. 265284, secondo cui il reato di omesso versamento delle ritenute previdenziali e assistenziali di cui al D.L. 12 settembre 1983, n. 463, art. 2, conv. in L. 11 novembre 1983, n. 638 , in quanto illecito omissivo istantaneo, si consuma alla scadenza del termine entro il quale il datore di lavoro deve versare le ritenute operate sulle retribuzioni corrisposte ai propri dipendenti, momento nel quale deve sussistere l’elemento soggettivo, sicchè non può dedursi l’assenza del dolo dalla mancata conoscenza della diffida ad adempiere, inviata al contravventore a seguito dell’accertamento della violazione per consentirgli di giovarsi della speciale causa di non punibilità ivi prevista mediante il versamento integrale dei contributi entro tre mesi).

3.3. Peraltro, quand’anche si volesse ritenere che nella fattispecie il termine di tre mesi previsto per il pagamento tardivo delle dette ritenute (relative ai mesi di gennaio, febbraio, marzo, aprile, maggio e giugno 2009) non decorra dal verbale di accertamento del 15.09.2011, ma dalla diffida notificata il 30.07.2012 (termini temporali che si ricavano dalla lettura della sentenza di appello), nondimeno, non vi è prova che la parte – inottemperante, sul punto, al principio di autosufficienza del ricorso – abbia provveduto a pagare il dovuto nel termine del 30.10.2012 (nè il dato risulta pacificamente rinvenibile dalla lettura della sentenza di primo grado) per beneficiare della predetta causa di non punibilità: di tal chè, i pagamenti asseritamente effettuati debbono necessariamente essere considerati come tardivi non solo in relazione al momento consumativo del reato ma anche con riferimento all’applicabilità della causa di non punibilità di cui al cit. art. 2, comma 1 bis.

3.4. In relazione al secondo aspetto dedotto, il motivo appare fondato.

Invero, il D.Lgs. 15 gennaio 2016, n. 8, art. 3, comma 6, prevede che “Il D.L. 12 settembre 1983, n. 463, art. 2, comma 1-bis, convertito, con modificazioni, dalla L. 11 novembre 1983, n. 638 , è sostituito dal seguente: “1-bis. L’omesso versamento delle ritenute di cui al comma 1, per un importo superiore a Euro 10.000 annui, è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a Euro 1.032. Se l’importo omesso non è superiore a Euro 10.000 annui, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da Euro 10.000 a Euro 50.000. Il datore di lavoro non è punibile, nè assoggettabile alla sanzione amministrativa, quando provvede al versamento delle ritenute entro tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell’avvenuto accertamento della violazione.”.

Nella fattispecie, l’ammontare complessivo delle ritenute previdenziali ed assistenziali per il semestre gennaio-giugno 2009, ammontava a complessivi Euro 5.012,69, importo che consente di ritenere depenalizzato il reato de quo.

Osta alla trasmissione all’Autorità amministrativa degli atti per l’irrogazione della sanzione amministrativa, l’avvenuta maturazione del termine quinquennale di prescrizione (decorrente dal giorno di commissione della violazione) previsto dalla L. n. 689 del 1981, art. 28, richiamato dal D.Lgs. n. 8 del 2016, art. 6.

Infondato è il secondo motivo di ricorso.

3.1. E’ da premettere come la censura, articolandosi sotto il solo profilo del vizio di motivazione, s’incentri sul fatto che la Corte territoriale ha omesso di adeguatamente apprezzare la circostanza secondo cui la violazione della normativa a tutela del lavoratore aveva costituito, nello specifico, il risultato di un accordo tra le parti, di tal che l’accordo, seppure illecito e nullo sotto il profilo privatistico, non poteva integrare un fatto rilevante agli effetti dell’art. 629 c.p. , per difetto del requisito della minaccia.

3.1.1. Ciò posto, ritiene il Collegio come il nodo centrale della decisione si riveli quello della qualificazione giuridica della condotta ascritta all’imputato; a tal fine, occorre verificare se la ricostruzione del fatto storico sia suscettibile di censura sotto il profilo logico e, quindi, accertare se la fattispecie sia stata correttamente inquadrata nel paradigma dell’art. 629 c.p..

In punto di diritto, va premesso che l’oggetto della tutela giuridica nel reato di estorsione è duplice, nel senso che la norma persegue l’interesse pubblico all’inviolabilità del patrimonio e, nel contempo, alla libertà di autodeterminazione.

L’evento finale della disposizione patrimoniale lesiva del patrimonio proviene, infatti, dalla stessa vittima ed è il risultato di una situazione di costrizione determinata dalla violenza o dalla minaccia del soggetto agente.

In particolare, il potere di autodeterminazione della vittima non è completamente annullato, ma è, tuttavia, limitato in maniera considerevole: in altri termini, il soggetto passivo dell’estorsione è posto nell’alternativa di far conseguire all’agente il vantaggio economico voluto ovvero di subire un pregiudizio diretto e immediato (tamen coactus, voluit).

3.1.2. In questa prospettiva, anche lo strumentale uso di mezzi leciti e di azioni astrattamente consentite può assumere un significato ricattatorio e genericamente estorsivo, quando lo scopo mediato sia quello di coartare l’altrui volontà; in tal caso, l’ingiustizia del proposito rende necessariamente ingiusta la minaccia di danno rivolta alla vittima e il male minacciato, giusto obiettivamente, diventa ingiusto per il fine cui è diretto (cfr., Sez. 2, sent. n. 877 del 17/10/1973).

Allo stesso modo, la prospettazione di un male ingiusto può integrare il delitto di estorsione, pur quando si persegua un giusto profitto e il negozio concluso a seguito di essa si riveli addirittura vantaggioso per il soggetto destinatario della minaccia (cfr., Sez. 2, sent. n. 1071 del 05/03/1992): ciò, in quanto, la nota pregnante del delitto di estorsione consiste nel mettere la persona violentata o minacciata in condizioni di tale soggezione e dipendenza da non consentirle, senza un apprezzabile sacrificio della sua autonomia decisionale, alternative meno drastiche di quelle alle quali la stessa si considera costretta (cfr., Sez. 2, sent. n. 13043 del 07/11/2000, dep. 14/12/2000, Sala, Rv. 217508).

3.1.3. Si spiega così perchè la “minaccia”, da cui consegue la coazione della persona offesa, possa presentarsi in molteplici forme ed essere esplicita o larvata, scritta o orale, determinata o indeterminata, e finanche assumere la forma di semplice esortazione e di consiglio.

Ciò che rileva, al di là delle forme esteriori della condotta, è, infatti, il proposito voluto dal soggetto agente, inteso a perseguire un ingiusto profitto con altrui danno, nonchè l’idoneità del mezzo adoperato alla coartazione della capacità di autodeterminazione del soggetto agente. Orbene, ritiene il Collegio che le osservazioni del ricorrente non scalfiscano in alcun modo la valenza motivazionale della decisione impugnata, la quale si fonda sul principale rilievo dell’irrilevanza del formale ricorso al contratto, allorchè questo risulta strumentalizzato al perseguimento di un ingiusto profitto.

Invero, nella sentenza impugnata (la cui lettura va integrata con quella della sentenza di primo grado in presenza di una c.d. “doppia conforme” in punto affermazione della penale responsabilità con riferimento ai reati di estorsione) viene tracciato, in maniera logica ed esaustiva, un quadro globale di timore dei dipendenti, in ragione della particolare situazione del mercato del lavoro (in cui l’offerta superava di gran lunga la domanda) e in presenza di comportamenti certamente prevaricatori del datore di lavoro, sì da rendere evidente che, anche nel caso in cui sin dal momento di instaurazione del rapporto il lavoratore avesse “accettato” di non rivendicare i propri diritti, siffatta accettazione non era libera, ma condizionata dall’assenza di possibilità alternative di lavoro.

Valga considerare che questa Suprema Corte è costante nel ritenere che un accordo contrattuale tra datore di lavoro e dipendente, nel senso dell’accettazione da parte di quest’ultimo di percepire una paga inferiore ai minimi retributivi o non parametrata alle effettive ore lavorative, non esclude, di per sè, la sussistenza dei presupposti dell’estorsione mediante minaccia, in quanto anche uno strumento teoricamente legittimo, può essere usato per scopi diversi da quelli per cui è apprestato e può integrare, al di là della mera apparenza, una minaccia, ingiusta, perchè è ingiusto il fine a cui tende, e idonea a condizionare la volontà del soggetto passivo, interessato ad assicurarsi comunque una possibilità di lavoro, altrimenti esclusa per le generali condizioni ambientali o per le specifiche caratteristiche di un particolare settore di impiego della manodopera (cfr., ex plurimis, Sez. 2, sent. n. 3779 del 24/01/2003;

Sez. 1, sent. n. 5426 del 11/02/2002).

3.1.4. E’ questione, poi, riservata al giudice del merito valutare se la condotta dell’imputato sia stata posta in essere nella sola prospettiva di conseguire un ingiusto profitto con altrui danno, attraverso un comportamento che, al di là dell’aspetto formale dell’accordo contrattuale, ponga concretamente la vittima in uno stato di soggezione, ravvisabile nella alternativa di accedere all’ingiusta richiesta dell’agente o di subire un più grave pregiudizio, anche se non esplicitamente prospettato, quale l’assenza di altre possibilità occupazionali (cfr., Sez. 2, sent. n. 50074 del 27/11/2013, dep. 12/12/2013, Bleve e altro, Rv. 257984).

3.2. Orbene, nelle vicende in esame, i giudici di merito hanno ampiamente elencato e descritto i comportamenti prevaricatori del datore di lavoro in spregio dei diritti dei lavoratori, da rendere evidente, con la stessa eloquenza dei fatti, da un lato, che l’imputato si è costantemente avvalso della situazione del mercato del lavoro ad esso particolarmente favorevole e, dall’altro che il potere di autodeterminazione dei lavoratori è stato compromesso dalla minaccia larvata, ma non per questo meno grave e immanente, di avvalersi di siffatta situazione.

Invero, si legge in sentenza: “(ndr., il C.) non ha contestato la veridicità di quanto riferito dalle persone offese circa la qualità delle prestazioni pretese dal C., ben più onerose di quelle previste nel contratto, ma ha sostenuto che l’accordo intervenuto prima dell’assunzione tra i tre dipendenti e il datore di lavoro esclude la sussistenza del necessario requisito della minaccia di un male ingiusto, che solo può integrare la fattispecie estorsiva…”.

Al rilievo difensivo secondo cui i tre dipendenti erano liberi di scegliere se prestare attività lavorativa alle condizioni onerose offerte dall’imputato o cercare altre e migliori opportunità lavorative, la Corte territoriale “replica” osservando che “… dagli atti emerge con tutta evidenza che il termine “accordo” è un mero eufemismo per indicare le condizioni unilateralmente decise dal datore di lavoro e nel caso di specie palesemente inique ed estorsive. Le tre persone offese hanno infatti ribadito non solo di essere state assunte a condizione di firmare una lettera in bianco di dimissioni, ma soprattutto di essere state, nel corso del rapporto di lavoro, minacciate di licenziamento dall’imputato, qualora non avessero firmato le buste paga quali quietanze dell’importo ricevuto o non avessero svolto il prolungato orario di lavoro preteso. Sia Ca. che P. che Cu. hanno precisato di aver subito tali onerose condizioni per la paura di perdere il posto, stante l’evidente atteggiamento assunto al riguardo dall’imputato. La circostanza che dopo essere stati licenziati, i dipendenti non abbiano avuto difficoltà a trovare un nuovo lavoro, non esclude la condizione di soggezione che gli stessi vivevano nel momento in cui prestavano attività lavorativa per l’imputato, che agitava lo spettro del licenziamento per costringerli ad accettare condizioni lavorative inique”.

Sul punto, appare opportuno rimarcare che la situazione di debolezza in cui si trovavano le persone offese non era quella tipica dei lavoratori nei confronti del datore di lavoro, ma derivava dalla grave situazione occupazionale esistente in Sicilia, e nella città di Trapani in particolare, unitamente alle condizioni particolari di ciascuna di loro, sulle quali i giudici di merito si sono soffermati.

3.3. La motivazione della Corte territoriale appare del tutto congrua ed esente da vizi logico-giuridici.

Invero, del tutto infondate si rivelano le deduzioni del ricorrente – ai limiti del merito – in ordine all’esistenza di un accordo contrattuale: infatti, ciò che rileva agli effetti dell’art. 629 c.p. è che l'”accordo” non fu raggiunto liberamente, ma (nella descritta situazione) estorto.

Nel complesso, pertanto, la decisione impugnata trova sostegno in un solido apparato argomentativo, giuridicamente corretto e immune da palesi vizi logici e giuridici. Si è, infatti, in presenza di elementi di fatto di sicuro valore sintomatico, non elisi o efficacemente contrastati da elementi di segno opposto, coerentemente e congruamente valorizzati dai giudici del merito in ossequio alla norma generale espressa dall’art. 192 c.p.p. , comma 1, che è quella del libero convincimento, inteso come libertà di valutare gli elementi probatori, con il limite, qui rispettato, di dare conto dei criteri adottati.

3.3.1. E’ possibile quindi, ancora una volta, riconoscere ed affermare che integra il reato di estorsione anche la condotta del datore di lavoro che, anteriormente alla conclusione del contratto, impone al lavoratore ovvero induce il lavoratore ad accettare condizioni contrarie a legge ponendolo nell’alternativa di accettare quanto richiesto ovvero di subire il male minacciato (cfr., Sez. 2, sent. n. 53649 del 05/12/2014, dep. 23/12/2014, Schittone ed altri, non mass.; v., altresì, Sez. 2, sent. n. 677 del 10/10/2014, dep. 12/01/2015, Di Vincenzo, Rv. 261553).

3.3.2. Di contro, le censure del ricorrente si rivelano in parte generiche e, comunque, sostanzialmente afferenti a valutazioni riservate al giudice del merito per quanto attiene alla ricostruzione dei fatti storici e all’interpretazione del materiale probatorio. Al contrario di quanto si è cercato di sostenere nel ricorso, il riscontro dell’assunta libertà della pattuizione tra l’imputato e le parti offese non può – quasi per definizione – ricavarsi dagli aspetti meramente formali del rapporto di lavoro, per di più se necessariamente comportanti l’adozione di artifici contabili alquanto sintomatici, in sè, di una ben precisa intenzione di tenere nascosta la realtà del rapporto di lavoro.

3.3.3. Anche a volere convenire che l’accettazione, da parte dei lavoratori, di una retribuzione inferiore a quella risultante in busta paga non basti, di per sè sola, a dare prova di una subita coercizione, non è infatti stata la forma della “libera” pattuizione ad avere trasformato, nel caso di specie, un semplice illecito civile nel reato di estorsione, bensì la modalità, resa chiara fin dall’assunzione e ribadita in costanza di rapporto, di concreta attuazione, mese dopo mese, della pretesa “libera” pattuizione.

In ogni caso, appare difficilmente contestabile l’assoluta assertività degli argomenti difensivi, siccome tutti costantemente incentrati sulla mera e semplice negazione della minaccia esplicita o larvata del licenziamento e, comunque, sulla non ingiustizia del profitto con altrui danno. Al contrario, appuntando l’attenzione soltanto sulla concretezza del caso oggetto di vaglio processuale, occorre decisamente convenire con quanto ritenuto dai primi giudici, i quali, lungi dall’avere travisato o trascurato nulla, hanno analiticamente preso in considerazione tutti gli elementi dichiarativi e documentali emersi in sede istruttoria, reputandoli nel complesso conducenti, con lineare e logico argomentare, a dare prova della coazione integrante la contestata fattispecie estorsiva.

3.3.4. Con tali argomentazioni, il ricorrente, in concreto, non si confronta adeguatamente, limitandosi a riproporre una diversa “lettura” delle risultanze probatorie acquisite, fondata su mere ed indimostrate congetture, senza documentare nei modi di rito eventuali travisamenti che abbiano potuto decisivamente condizionare la conclusiva affermazione di responsabilità.

Alla pronuncia di annullamento senza rinvio della sentenza impugnata limitatamente al reato di cui al capo G) perchè il fatto non è più previsto dalla legge come reato consegue l’eliminazione della relativa pena concretamente inflitta, pari a giorni venti di reclusione: la pena finale complessiva sarà quindi pari ad anni due, mesi sei e giorni venti di reclusione ed Euro 260,00 di multa. Nel resto, per le ragioni dinanzi esposte, il ricorso va rigettato a ragione della sua infondatezza.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui al capo G) perchè il fatto non è più previsto dalla legge come reato ed elimina la relativa pena di giorni venti di reclusione.

Determina la pena finale complessiva in anni due, mesi sei e giorni venti di reclusione ed Euro 260,00 di multa. Rigetta nel resto.

Così deciso in Roma, nella Udienza pubblica, il 14 aprile 2016.

Depositato in Cancelleria il 5 maggio 2016

 

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