13282680_10209710299902418_862590905_oAlla luce delle continue pronunce in materia, sembra, oggigiorno, che il reato di atti persecutori sia uno degli argomenti più floridi che la Suprema Corte di Cassazione si trova ad affrontare. Ultimo traguardo dei giudici di legittimità sarebbe la qualificazione degli insulti e minacce, effettuati mediante i social network, come atti persecutori e non come diffamazione.

Il fatto, all’attenzione della V sezione della Corte di Cassazione, che si è pronunciata con la sentenza n. 21407 depositata il 23 maggio 2016 , riguarda la condotta minatoria tenuta da un uomo che, dopo la separazione dalla moglie, ha visto affidati due dei suoi quattro figli agli ex suoceri. E’ proprio da tale affidamento che sarebbero nati una serie di comportamenti ostili del medesimo, il quale avrebbe minacciato e ingiuriato su Facebook i vecchi parenti, tanto da causare in loro un grave stato di ansia e paura.

Gli ermellini non hanno accettato il ricorso del destinatario della misura cautelare il quale affermava che le sue condotte al massimo potevano integrare il reato meno grave di diffamazione. La condotta “che pur potendo in ipotesi integrare in sé un autonomo reato va letta nell’ambito delle complessive attività persecutorie”, ed è quindi capace di integrare il reato di cui all’art.612-bis se è idonea a cagionare uno degli eventi previsti dalla fattispecie.

Una pronuncia che allarga ancora di più le modalità di commissione del reato di stalking sempre e purchè l’azione rientri in quella strategia persecutoria che l’esecutore del reato abbia come prima finalità.

Officina Lex – Studio Legale Bartoletti Ascenzi

Federico Melis

 

Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 16 dicembre 2015 – 23 maggio 2016, n. 21407
Presidente Zaza – Relatore Pezzullo

Ritenuto in fatto

IL Tribunale di Catania, con ordinanza ai sensi dell’art. 309 c.p.p., in data 27.7.2015 confermava l’ordinanza applicativa nei confronti di  M.C. della misura del divieto di avvicinamento alle persone offese, G.P. e R.G. – con l’obbligo di mantenersi a una distanza di almeno 250 metri dall’abitazione delle stesse e con il divieto di comunicare con le predette persone offese con qualsiasi mezzo- in relazione al reato di cui all’art. 612-bis c.p., in danno delle predette p.o., genitori di G. Venera, ex convivente dell’indagato; in particolare, dopo la separazione dei conviventi, le pp.oo. erano state nominate dal Tribunale per i minorenni affidatarie di due dei quattro figli minori della coppia e l’indagato dal settembre 2014 al giugno 2015 li ingiuriava e denigrava anche attraverso il social network face-book, seguendone gli spostamenti, limitando la loro vita di relazione ed ingenerando un grave stato di ansia, nonché il fondato timore per la loro stessa incolumità, tanto che, i medesimi coniugi G. evitavano di uscire di casa per paura di incontrarlo.
2. Avverso la suddetta ordinanza, l’indagato ha

proposto ricorso per cassazione, a mezzo dei suo difensore di fiducia, con il quale lamenta: la violazione dell’art. 606, primo comma, lett. b) c.p.p., per violazione dei diritto di difesa, per avere il giudice della cautela posto a fondamento dell’ordinanza di rigetto fatti nuovi e, comunque, diversi da quelli illo tempore giustificanti l’emissione del provvedimento cautelare, a sostegno dei fumus commissi delicti, nonché fatti nuovi e, comunque, diversi da quelli contestati al ricorrente nell’avviso di conclusione delle indagini preliminari; la violazione dell’art. 273 e
segg. c.p.p., per difetto o illogicità della motivazione circa la sussistenza dei gravi indizi e/o delle esigenze cautelari; in particolare, il ricorrente, dopo aver ricostruito la sofferta vicenda della separazione, ha evidenziato che le accuse mosse al  M. sono sufficientemente circostanziate, in quanto l’imputato avrebbe: a) minacciato, anche di morte, sia direttamente che attraverso messaggi via face-book G.P. e R.G.; b) ingiuriato e denigrato i medesimi; c) seguito gli spostamenti degli stessi, anche appostandosi sotto la loro casa, ingenerando complessivamente nelle persone offese e, quindi, nei figli minori P. e S., un grave stato di ansia nonché il “fondato timore per la propria incolumità”; tali condotte risulterebbero provate dall’allegazione delle “schermate dei profili Facebook contenenti i messaggi incriminati e dalle denunce e i verbali di sommarie informazioni rese dalle persone offese”; quanto ai messaggi pubblicati sul social network face-book tuttavia gli stessi al più potrebbero integrare il reato di diffamazione, ma non quello di stalking, richiedendo in questo caso la minaccia o la molestia sul piano logico che il minacciato o il molestato faccia parte del novero degli “amici” di face-book; per quanto attiene, invece, la circostanza per cui il  M. si sarebbe ripetutamente presentato presso l’istituto scolastico frequentato dai figli P. e D., insistendo per vederli e contrapponendosi con minacce e azioni violente al personale ausiliario intervenuto su richiesta degli insegnanti, non è dato comprendere in che cosa siano consistite le minacce ed azioni violente che sarebbero state indirizzate ai querelanti, come pure non sussiste alcuna prova certa che l’indagato avrebbe utilizzato il figlio maggiore Achille per riferire a P. che il loro padre “li avrebbe ammazzati tutti”, così causando stato di terrore nel figlio.

Considerato in diritto

Il ricorso è inammissibile, siccome generico, confuso e comunque manifestamente infondato.
1. Giova ribadire, innanzitutto, che l’ordinamento non conferiscealla Corte di Cassazione alcun potere di revisione degli elementi materiali e fattuali delle vicende indagate, ivi compreso lo spessore degli indizi, ne’ alcun potere di riconsiderazione delle caratteristiche soggettive dell’indagato, ivi compreso l’apprezzamento delle esigenze cautelari e delle misure ritenute adeguate, trattandosi di apprezzamenti rientranti nel compito esclusivo e insindacabile del giudice cui è stata chiesta l’applicazione della misura cautelare, nonché del tribunale del riesame. Il controllo di legittimità sui punti devoluti è, perciò, circoscritto all’esclusivo esame dell’atto impugnato al fine di verificare che il testo di esso sia rispondente a due requisiti, uno di carattere positivo e l’altro negativo, la cui presenza rende l’atto incensurabile in sede di legittimità: 1) – l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato; 2) – l’assenza di illogicità evidenti, ossia la congruità delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento (Cass. Sez. 6, sent. n. 2146 del 25.05.1995, Tontoli ed altro, Rv. 201840). In particolare, il controllo di legittimità sulla motivazione delle ordinanze di riesame dei provvedimenti coercitivi è diretto a verificare, da un lato, la congruenza e la coordinazione logica dell’apparato argomentativo che collega gli indizi di colpevolezza al giudizio di probabile colpevolezza dell’indagato e, dall’altro, la valenza sintomatica degli indizi. Ma tale controllo, stabilito a garanzia del provvedimento, non involge il giudizio ricostruttivo del fatto e gli apprezzamenti del giudice di merito circa l’attendibilità delle fonti e la rilevanza e la concludenza dei risultati del materiale probatorio, quando la motivazione sia adeguata, coerente ed esente da errori logici e giuridici.
2. In base ai suddetti principi deve rilevarsi come il provvedimento impugnato risulti immune dai vizi lamentati dal ricorrente, esponendo le ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato in assenza di illogicità. In particolare, il grave quadro indiziario nei confronti del  M., è evincibile, secondo il Tribunale, dalle plurime acquisizioni investigative e segnatamente dalle “schermate facebook contenenti i messaggi incriminati”,dalle “denunce e verbali di sommarie informazioni rese dalle persone offese” che “offrono una narrazione adeguatamente circostanziata ed intrinsecamente coerente dei fatti, pur sfrondata da eventuali esagerazioni correlate al conflitto di interessi determinato dall’affidamento ai nonni dei due bambini P. e D.”, dalle relazioni degli assistenti sociali, dalle s.i.t. rese dalle persone informate sui fatti. 2.1. Va premesso che il delitto di atti persecutori è reato abituale che differisce dai reati di molestie e di minacce, che pure ne possono rappresentare un elemento costitutivo, per la produzione di un evento di “danno”, consistente nell’alterazione delle proprie abitudini di vita o in un perdurante e grave stato di ansia o di paura, o, in alternativa, di un evento di “pericolo”, consistente nel fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva (Sez. 3, n. 9222 del 16/01/2015). La caratteristica fondamentale dell’incriminazione in oggetto è la reiterazione delle condotte che rappresenta il predicato dell’abitualità del reato, per la cui integrazione la giurisprudenza ha ritenuto sufficienti anche due sole condotte (Sez. 5, n. 46331 del 05/06/2013). Per l’integrazione del reato è irrilevante che le singole condotte siano o meno autonomamente perseguibili come reati, potendo altresì rilevare comportamenti non specificamente oggetto di norme incriminatrici di parte speciale – quali appostamenti, pedinamenti ecc. – purché l’abitualità degli stessi si traduca nella percezione di atti persecutori idonei a cagionare uno degli eventi di danno previsti dalla norma. Quanto al profilo soggettivo, lo stalking è un reato abituale di evento assistito dal dolo generico, il cui contenuto richiede la volontà di porre in essere più condotte di minaccia e molestia, nella consapevolezza della loro idoneità a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice e dell’abitualità dei proprio agire, ma non postula la preordinazione di tali condotte – elemento non previsto sul fronte della tipicità normativa – potendo queste ultime, invece, essere in tutto o in parte anche meramente casuali e realizzate qualora se ne presenti l’occasione (Sez. 5, n. 43085 del 24/09/2015).
2.2. Alla luce di tali premesse deve osservarsi come non meriti censura la valutazione effettuata dal Tribunale dei riesame, secondo cui già in sé le dichiarazioni delle p.o. possono costituire prova della responsabilità dell’indagato, sempre che ne venga verificata l’attendibilità e nel caso di specie l’attendibilità delle p.o. è stata compiutamente considerata anche in relazione ai plurimi elementi di riscontro, quali ad esempio l’utilizzo di account intestati a soggetti di fantasia volti ad occultare la propria identità alle p.o., ovvero il contenuto delle relazioni delle assistenti sociali. Sulla scorta delle denunce in atti emerge che l’indagato ha ripetutamente ingiuriato e denigrato le pp.oo., ne ha seguito gli spostamenti, si è appostato sotto la loro abitazione, ne ha limitato la vita di relazione, ingenerando in loro un grave stato d’ansia, nonché il fondato timore per la loro stessa incolumità, come evincibile dal certificato medico in atti. A fronte di plurimi episodi, sviluppatisi in un significativo arco temporale, il ricorrente svolge censure in fatto non sono in grado di elidere i plurimi elementi a suo carico, posti a fondamento della misura coercitiva. La circostanza secondo
cui i messaggi pubblicati sui social network face-book al più potrebbero integrare il reato di diffamazione, non si presenta significativa posto che il reato di atti persecutori tiene conto, così come già evidenziato, del fatto che viene in questione nella fattispecie di stalking la reiterazione delle condotte e non il singolo episodio che pur potendo in ipotesi integrare in sé un autonomo reato va letto nell’ambito delle complessive attività persecutorie. Per quanto concerne, poi, gli elementi posti a fondamento del provvedimento di conferma della misura cautelare, si osserva che ben può il Tribunale valorizzare anche elementi diversi rispetto a quelli specificamente indicati nel provvedimento di applicazione della misura, sempre che rientranti tra gli elementi a lui trasmessi e conosciuti dall’indagato, siccome in atti.
3. Alla declaratoria di inammissibilitàsegue per legge la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché, trattandosi di causa di inammissibilità riconducibile a colpa del ricorrente (Corte Costituzionale n. 186 del 7-13 giugno 2000), al versamento, a favore della cassa delle ammende, di una somma che si ritiene equo e congruo determinare in Euro 1000,00.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1000,00 a favore della cassa delle ammende. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma dell’art. 52 d.lgs. 196/2003 in quanto imposto dalla legge

 

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