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marito e moglieQuella all’attenzione della III sez. Penale della Corte di Cassazione non è stata una semplice scaramuccia fra marito e moglie, ma una specifica condotta delittuosa inserita in un più ampio disegno criminoso.

La sentenza n 18937/2016 ha di recente chiarito che la condotta del marito, che priva delle disponibilità economiche la propria moglie, togliendole la procura sul conto corrente e l’utilizzo del bancomat, integra la fattispecie di reato per maltrattamenti familiari, disciplinato ex art. 572 c.p.

A nulla è servito il ricorso in Cassazione dell’imputato già condannato in primo e secondo grado. Lo stesso lamentava una non corretta applicazione dell’articolo suddetto, asserendo che tali tipi di privazione non potevano di certo influire sul tenore di vita della stessa, data la sua indipendenza economica.

I giudici di legittimità hanno invece ritenuto che tale atteggiamento dovesse essere considerato come “una delle numerose modalità di maltrattamento poste in essere dall’imputato”, per giunta inserite in una cornice criminosa ben più ampia dato che, come si legge in sentenza, il comportamento del marito si estrinsecava anche in violenze psicologiche, lesioni, privazione di disponibilità economiche”, e nell’ “averla costretta a subire e a compiere reiterati atti sessuali, anche orali e anali, nonché masturbazioni, minacciandola, picchiandola, immobilizzandola con violenza, offendendola”.

 

Una situazione di fondo che non ha lasciato indifferente la Corte di Cassazione, che ha deciso di estendere, sempre nei limiti della legalità, la portata dell’art. 572 c.p.

 

 

Officina Lex -Studio legale Bartoletti Ascenzi

 

Federico Melis

 

 

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 19 gennaio – 6 maggio

2016, n. 18937

Presidente Amoresano – Relatore Andronio

Ritenuto in fatto

 

1- Con sentenza del 12 novembre 2014, la Corte d’appello di Milano ha parzialmente confermato la sentenza del Tribunale di Milano dell’11 aprile 2013, con la quale l’imputato era stato condannato, anche al risarcimento del danno alla costituita parte civile, da determinarsi in separato giudizio, con liquidazione di provvisionale, per i reati di cui agli artt. 81, secondo comma, 572 e 609-bis cod. pen., per avere, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, maltrattato la moglie con insulti, violenze psicologiche, lesioni, privazione di disponibilità economiche, e per averla costretta a subire e a compiere reiterati atti sessuali, anche orali e anali, nonché masturbazioni, minacciandola, picchiandola, immobilizzandola con violenza, offendendola. La Corte territoriale ha revocato le statuizioni civili, per intervenuta revoca della costituzione di parte civile, e ha riconosciuto l’ipotesi di minore gravità di cui all’art. 609 bis, ultimo comma, cod. pen., diminuendo la pena di conseguenza e confermando nel resto la sentenza di primo grado.

2- Avverso la decisione della Corte d’appello l’imputato ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione, chiedendone l’annullamento.

2.1. – Con un primo motivo di doglianza, si contesta l’erronea applicazione dell’art. 572 cod. pen., sul rilievo che la privazione di disponibilità economiche in capo alla moglie cui fa riferimento l’imputazione sarebbe insussistente. Non si sarebbe considerato, infatti, che quest’ultima aveva dichiarato di avere sempre lavorato e percepito una retribuzione che rimaneva nella sua disponibilità. La persona offesa, inoltre, aveva delega sul conto corrente dell’imputato, così da poter effettuare anche prelievi. Dall’istruttoria sarebbe, emerso, inoltre, un agiato tenore della vita familiare, con vacanze estive prolungate, viaggi all’estero, vita sociale intensa.

2.2. – In secondo luogo, si deduce l’erronea applicazione dell’art. 609 septies cod. pen., per l’insussistenza di un rapporto di connessione fra la violenza sessuale e i maltrattamenti in famiglia. La connessione rilevante ai fini di tale disposizione sarebbe – secondo la difesa – quella di carattere investigativo, che nel caso di specie non sarebbe configurabile, perché l’indagine sui maltrattamenti poteva essere condotta in modo autonomo, senza necessariamente investire la sfera sessuale della persona offesa. Non vi sarebbe neanche una connessione teleologica, per la mancata contestazione dell’aggravante di cui all’art. 61, n. 2), cod. pen.

2.3. – Una terza censura è riferita alla mancata assunzione della prova decisiva che sarebbe rappresentata dalle testimonianze dei figli della coppia. La Corte d’appello avrebbe rigettato la relativa richiesta ritenendo non decisiva la deposizione, ad oltre sei anni di distanza dai fatti, in un clima di rapporti familiari nel frattempo modificato, e in presenza di numerose testimonianze di terzi estranei. La difesa lamenta che la richiesta testimonianza non aveva carattere esplorativo, perché i figli avrebbero dovuto riferire su quanto visto direttamente negli ultimi anni della convivenza.

2.4. – In quarto luogo, si lamenta l’erronea applicazione dell’art. 609 bis cod. pen., sul rilievo che la persona offesa avrebbe potuto troncare la relazione coniugale e con ciò evitare di avere rapporti sessuali. Si sostiene a tale proposito, che il costringere la moglie a rapporti sessuali da lei non voluti configurerebbe al più il reato di cui all’art. 572 cod. pen.

2.5. – In prossimità dell’udienza davanti a questa Corte, la difesa ha depositato una memoria, con la quale rileva l’inosservanza dell’art. 62, n. 6), cod. pen., avendo l’imputato risarcito la persona offesa, a seguito di accordo transattivo prodotto nel corso del giudizio di secondo grado, a cui lo stesso imputato ha poi dato esecuzione.

 

Considerato in diritto

3- Il ricorso è inammissibile.

3.1. – Il primo motivo di doglianza – con cui si contesta l’erronea applicazione dell’art. 572 cod. pen., sul rilievo che la privazione di disponibilità economiche in capo alla moglie cui fa riferimento l’imputazione sarebbe insussistente – è inammissibile per genericità. La difesa non mostra, infatti, di tenere conto della formulazione dell’imputazione, da cui emerge che la privazione di disponibilità economiche costituisce solo una delle numerose modalità di maltrattamento poste in essere dall’imputato. Né la stessa difesa sostanzialmente contesta che il marito abbia posto in essere nei confronti della moglie ingiurie, violenze, che avevano cagionato anche lesioni oggetto di referto medico, nonché percosse e minacce. A ciò deve aggiungersi che la ricostruzione difensiva risulta del tutto sganciata da puntuali rilievi critici alla motivazione della sentenza impugnata anche in riferimento al profilo economico. Essa si basa, infatti, su mere indimostrate asserzioni, inidonee a contrastare le affermazioni dei Tribunale e della Corte d’appello, secondo cui il marito aveva tolto alla moglie la procura sul conto corrente e l’uso del bancomat, lasciandole soltanto una carta per la spesa nel supermercato, con un limitato plafond; il bancomat le era stato poi successivamente riconsegnato per poi esserle nuovamente tolto; e tali circostanze risultano riscontrate dall’esame degli estratti conto prodotti, che attestano pagamenti per importi modesti presso supermercati e negozi di alimentari. Né possono valere, in senso contrario, le affermazioni della difesa circa il buon livello economico della famiglia, essendo stato dimostrato – come sopra visto – che il marito aveva privato sostanzialmente la moglie della disponibilità del denaro depositato sul conto bancario; come bene evidenziato dalla corte d’appello (pag. 10 della sentenza impugnata).

3.2. – Del tutto generico è anche il secondo motivo di doglianza, con cui si deduce l’erronea applicazione dell’art. 609 septies cod. pen., per la pretesa insussistenza di un rapporto di connessione fra la violenza sessuale e i maltrattamenti in famiglia. A fronte delle mere asserzioni difensive di segno contrario, i giudici di merito hanno correttamente evidenziato che sussistono tra le due fattispecie evidenti connessioni di carattere investigativo, rappresentate dalla comunanza delle fonti di prova dei due reati, nonché di carattere teologico, essendo le violenze sessuali avvenute nell’ambito del contesto familiare di violenza, minaccia, offesa e sopraffazione creato dal marito.

3.3. – La terza censura del ricorrente – riferita alla mancata assunzione della prova decisiva che sarebbe rappresentata dalle testimonianze dei figli della coppia – è inammissibile, perché diretta ad ottenere da questa Corte una rivalutazione nel merito delle considerazioni svolte sul punto dalla Corte d’appello. Quest’ultima, con motivazione dei tutto logico e coerente e, dunque, insindacabile in questa sede ha evidenziato che si tratta di una richiesta meramente esplorativa, perché diretta alla descrizione dei “clima coniugale dell’epoca” e non all’accertamento di singoli fatti direttamente rilevanti ai fini della valutazione della responsabilità penale per i reati oggetto dell’imputazione, ad oltre sei anni di distanza dai fatti, in un clima di rapporti familiari modificato e in presenza dei numerosi riscontri testimoniali costituiti dalle dichiarazioni di terzi estranei.

3.4. – Manifestamente infondato è il quarto motivo di doglianza, con cui si lamenta l’erronea applicazione dell’art. 609 bis cod. pen., sul rilievo che la persona offesa avrebbe potuto troncare la relazione coniugale e con ciò evitare di avere rapporti sessuali. La difesa si basa, infatti, sull’erroneo assunto che il costringere la moglie a rapporti sessuali da lei non voluti configurerebbe al più il reato di cui all’art. 572 cod. pen. Si tratta di un assunto puntualmente

smentito dalla nota e consolidata giurisprudenza di questa Corte, la quale ha più volte evidenziato che, alla luce dell’art. 143 cod. civ., in materia di diritti e doveri dei coniugi, non sussiste alcun diritto dei coniuge al compimento di atti sessuali come sfogo dell’istinto sessuale anche contro la volontà dell’altro coniuge; con la conseguenza che i rapporti sessuali posti in essere con violenza e minaccia configurano pienamente il reato di violenza sessuale. Deve qui ribadirsi che il concetto di violenza sessuale, nell’oggettività della tutela

apprestata dalla previsione normativa, ha una sua sostanziale e immodificabile unitarietà, che non consente di distinguere tra violenza sessuale consumata tra estranei e violenza sessuale consumata all’interno di un rapporto coniugale; cosicché non esistono, quando si tratta di accertare se vi sia stata o meno coartazione dell’altrui libertà di scelta nei rapporti sessuali tra coniugi, criteri di giudizio diversi da quelli applicabili nei rapporti tra estranei; né esiste una “quantità” di violenza sessuale che sia tollerabile nell’ambito dei rapporto di coniugio. L’esistenza di un tale rapporto, o di un rapporto di convivenza, non autorizza alcun uso violento del corpo altrui, né limitazioni della libertà della persona o umiliazioni della sua dignità. E neppure l’ingiustificato e persistente rifiuto di rapporti sessuali legittima il ricorso ad alcuna forma di coercizione morale o fisica per ottenere la consumazione di tali rapporti (ex plurimis, sez. 3, 17 febbraio 2015, n. 39865, rv. 264788; sez. 3, 23 maggio 2013, n. 29725,

256823; sez. 3, 12 luglio 2007, n. 36962, rv. 237313; sez. 3, 7 marzo 2006, n. 16292, rv. 234171). Del resto, la difesa non ha sostanzialmente contestato la ricostruzione dei fatti operata dalla persona offesa, la quale ha dettagliatamente descritto sia i maltrattamenti sia i singoli abusi sessuali subiti, trovando riscontro in alcuni testi di riferimento, che hanno anche personalmente accertato più volte la condizione di prostrazione nella quale la stessa persona offesa si trovava.

3.5. – Il quinto motivo di doglianza – relativo alla pretesa inosservanza dell’art. 62, n. 6), cod. pen., e basato sul rilievo che l’imputato avrebbe risarcito la persona offesa, a seguito di accordo transattivo prodotto nel corso del giudizio di secondo grado – è inammissibile. La richiamata disposizione prevede, infatti, che possa avere rilevanza, quale circostanza attenuante, l’integrale riparazione dei danno mediante il risarcimento di esso che avvenga prima dei giudizio di primo grado e non, come nel caso di specie, nel corso del giudizio di appello. Con tale previsione, si è inteso evitare che la circostanza attenuante in oggetto possa essere fruita sulla base di una dimostrazione di ravvedimento che, manifestata successivamente all’inizio dei giudizio di primo grado, ben potrebbe essere “interessata” e non, invece, il frutto di uno spontaneo ravvedimento, posto che, una volta preso atto dell’andamento del dibattimento, l’imputato potrebbe determinarsi, secondo un calcolo di mera opportunità, al comportamento previsto dalla norma in esame. Ia-recente s t’eri (ex plurimis, sez. 3, 19 novembre 2014, n. 10490/2015; sez. 3, 28 novembre 2013, n. 5457/2014;

sez. 4, 28 marzo 2008, n. 30802, rv. 241892). In altri termini, la ragione del limite temporale fissato dal legislatore va individuata nella possibilità di verifica, da parte del giudice, del sincero ravvedimento, la cui prova può essere data dall’imputato, secondo la presunzione logica che si evince dalla norma, solo prima che egli si sia sottoposto al vaglio del giudizio, mentre è invece oggettivamente preclusa l’applicabilità di detta attenuante sulla base di

qualsiasi dimostrazione di ravvedimento, pur nel senso previsto dalla norma, resa successivamente all’inizio dei giudizio di primo grado, nell’ambito del quale, una volta visto appunto l’andamento del dibattimento, ancor prima della sentenza, l’imputato potrebbe determinarsi, seguendo un calcolo di opportunità, a risarcire il danno ovvero al comportamento alternativo previsto dalla norma in esame (sez. 6, 25 novembre 1993, n. 897, rv. 197360).

4- Il ricorso, conseguentemente, deve essere dichiarato inammissibile. Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese dei procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in € 1.000,00.

 

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

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